L'esercizio per il mese di Maggio 2021 "specchio e riflesso" riservato ai soci di "Marostica Fotografia 1979" e terminato, ora con piacere vi allego questo articolo sull'argomento scritto nel 2016 da Michele Smargiassi nel blog Fotocrazia per Repubblica. Inoltre sotto trovate tutte le foto che avete inviato nel gruppo Facebook "MF79 gruppo operativo".
Chissà se Hermann Rorschach amava la montagna. L'epoca storica era quella della scoperta dell'escursionismo e dell'alpinismo, quindi magari ci sta.
Chissà se Hermann Rorschach si è mai assopito sul bordo di un laghetto alpino e, da quella posizione orizzontale, ha intravisto fra le palpebre semichiuse il curioso effetto di un paesaggio montano che si riflette perfettamente nello specchio dell'acqua.
Chissà se è da lì che gli venne l'idea dei suoi test psicodiagnostici. Quelle macchie simmetriche, apparentemente astratte, in cui i suoi pazienti vedevano di tutto. E da quel che vedevano, lui traeva conclusioni sulla personalità del paziente e sulle sue patologie.
Davide Baldrati (non rivelo nulla di privato che non riveli lui stesso nell'introduzione al suo libro Fotodiagnostick) ha conosciuto due volte da vicino il test di Rorschach: come paziente, una decina d'anni fa, e poi scoprendo nella biblioteca materna un'edizione originale delle tavole.
O forse dovrei dire tre volte. Perché Davide è un fotografo, e ha realizzato le "sue" tavole di Rorschach, semplicemente fotografando, appunto, un laghetto alpino perfettamente specchiante (quello di Antermoia, val di Fassa, presidiato da un rifugio costruito un secolo fa, guarda tu, da un fotografo, Franz Dantone), e poi girandoli di 90 gradi.
Ne trovate dieci, raccolte in un austero professionale cofanetto, montate su cartoncini spessi, pronte per l'uso.
E funzionano, santo cielo se funzionano. Vedo facce, volti mostruosi, profili di animali... Il grifo di un gufo... Davvero basta una torsione dello sguardo per trasformare la realtà di una visione in una visione irreale che produce altre visioni...
Anni fa vidi il lavoro di un'altra fotografa, Francesca Bertolini, che aveva molti punti di contatto con questo (Davide, non è una critica, la cultura è fatta di rimbalzi, ritorni, insistenze), anche se non sfiorava affatto il tema psicanalitico. Anche in quel caso, però, paesaggi specchiati nell'acqua diventavano forme astratte semplicemente perché presentate in un orientamento innaturale.
Il lavoro mi piacque, scrissi per lei un testo sulla complessa relazione fra specchio e fotografia, che non credo sia mai stato pubblicato. Mi fa piacere riproporne i passaggi che si applicano bene a entrambe le ricerche.
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L’icona assoluta, il doppio perfetto. Ma labile, evanescente. Gli mancò, per secoli, la memoria. Le miroir qui se souvient: ecco la fotografia, perfezionamento e apoteosi dello specchio.
Nella preistoria del “desiderio bruciante” per l’immagine automatica ci sono gli specchi appiccicosi dei saggi dell’isola immaginaria di Giphantie, invenzione o meglio premonizione di Tiphaigne de la Roche, capaci di catturare l’immagine fugace della superficie riflettente e trattenerla per sempre. Quel che riusciranno poi a fare le emulsioni ai sali d’argento.
Imitazione transustanziata in immagine, mimesi che diventa semiosi: tutto a posto, gioco fatto, non c’era che da inventarla così, la fotografia, erede assennata dello specchio millenario. Daguerre con le sue luccicanti lastrine d’argento ben levigato fu il vendicatore di Narciso. E tutto il mondo corse ad ammirare la propria triviale immagine, per la rabbia di Baudelaire.
Narcisi liberati, come Prometeo, dalla schiavitù, dalla dipendenza reverenziale verso lo specchio, che è fedele ma egoista: per farti vedere come tu non potresti mai vederti da solo esige la tua presenza al suo cospetto. Gli specchi memorizzanti sfornati dalla camera oscura, invece, custodiranno il tuo volto in tua assenza, perfino dopo la tua morte.
Fedelmente? Come farebbe un tuo gemello vivente, anzi un clone, una replica bionica perfetta? No, questo nessuno l’ha mai creduto veramente. Neppure dello specchio, del resto. Narciso forse l’unico illuso: e ci morì.
“L’essenza della verosimiglianza è la falsità che colpisce i nostri occhi”: Sant’Agostino parlava della fallacità del mondo, e prese come metafora per l’appunto lo specchio: “Non vi sembra forse che la vostra immagine riflessa nello specchio desideri essere voi stessi, ma sia falsa appunto perché non lo è?”. Perfino la sete positivista di immagini “vere”, semplici calchi meccanici del mondo fisico, alla fine dell’Ottocento, s’arrese di fronte alle – giuste – rivendicazioni autoriali dei fotografi e proclamò alla fine di un esausto dibattito che la fotografia è arte: cioè è menzogna.
Del resto, proprio la memoria antropologica dello specchio mise in guardia l’umanità dall’illusione di Narciso. La diffidenza atavica, le mille superstizioni legate allo specchio parlano chiaro, e contraddicono ogni credenza nella replica perfetta. Non si dice mal/occhio? Lo specchio cattura, ma trasforma, imbriglia: si fanno fatture con gli specchi.
Lo specchio inghiotte, digerisce, restituisce qualcosa di altro. Riflette e intanto deforma. Una ruga nella sua superficie, e il mondo si cambia in mostro. Quanta fatica per produrre uno specchio piano, assolutamente liscio. Per una replica meticolosa, milioni di possibili anamorfosi: l’infedeltà dello specchio è una questione probabilistica.
Per Jurgis Baltrušaitis Lo specchio “non ci restituisce la realtà ma la frantuma, e con i suoi frammenti ricostruisce un nuovo mondo”. Lo specchio insomma crea. Quindi lo specchio tradisce: e non solo perché dà l’impressione di rovesciare il mondo, scambiando apparentemente la destra con la sinistra. Ma perché fa la parodia delle cose, mascherandola da verità.
Alice attraversa lo specchio, ma il mondo che trova di là non assomiglia affatto a quello di qua. Lo specchio è rivelatore, sì: ma dell’invisibile. Non tanto perché riesce a mostrarci quel lato essenziale del nostro corpo, il volto, che senza di lui ci resterebbe ignoto; non solo perché può far girare il nostro sguardo oltre gli spigoli (periscopio) o dietro la nuca (retrovisore). Perché “vede di più”.
Di specchi magici, indovini, predittori, sono piene le mitologie popolari, e i film di Walt Disney. Non si dice “specchio dell’anima”? In molte culture lo specchio è la soglia che permette di comunicare con i morti. E quand’anche lo specchio rivela una verità, è una verità sovrumana, extrapercettiva, quasi divinatoria. Vampiri e fantasmi non si riflettono negli specchi. Perfino nel giudizio artistico lo specchio ci surclassa: per mettere alla prova la buona composizione di una fotografia, Henri Cartier-Bresson la guardava allo specchio; ma prima di lui lo fece, coi disegni, l’Alberti.
Non icona, dunque: ma doppio. Non è la stessa cosa. Il doppio non è l’identico. Il doppio tollera variazioni, modifiche impercettibili, immette silenziosamente il diverso nell’uguale: e questo lo rende perturbante.
La somiglianza imperfetta dei gemelli inquieta chiunque: Diane Arbus ne fece la metafora visuale della sua fotografia. Lo specchio irrompe sul confine fra imitazione e simbolo. Tra replica e messaggio. Che non sia segno, i semiologi lo sosterranno fino in fondo.
Ma quando arriva la fotografia, le cose cambiano. Perseo usa uno specchio per ritorcere contro la Medusa il suo sguardo pietrificante: con Niépce e Daguerre, Perseo e Medusa vanno a braccetto: la fotografia è lo sguardo medusante che si serve dello specchio come deposito e prova della propria potenza. Specchio e fotografia, gemelli diversi, alleati sospettosi.
Gli specchi vanno maneggiati con prudenza. Tagliano, quando si rompono, e sono sette anni di guai. Accecano e bruciano (Archimede e i suoi specchi ustori). Fotografare gli specchi è un esercizio di coraggio, quasi di incoscienza: guai al Faust che non sa dominare le potenze occulte che stuzzica ed evoca.
Specchi non fatti da mano d’uomo. Se magia dev’essere, sia almeno magia naturalis, come quella indagata dal Della Porta, che di specchi se ne intendeva. La natura, del resto, è generosa di superfici riflettenti. Il mare riflette il cielo su tre quarti del pianeta.
Laghi, stagni, canali, fiumi tranquilli sono specchi a disposizione quasi ovunque. Boschi, manufatti, montagne, tutto ciò che sta oltre la riva si tuffa nel piano acquatico e rimbalza, capovolto e somigliante, uguale e contrario. Visioni pacificate, dov’è il paesaggio a citare se stesso, coi soli propri mezzi.
Le vedute lacustri sono cartoline per antonomasia, perché spontaneamente composte: la linea della riva funziona come un asse di simmetria, i volumi della scena trovano automaticamente equilibrio e forma. Anche un dilettante cava qualcosa di decente da un lago specchiante. Di riflessi nell’acqua sono quindi pieni gli album di famiglia, e i concorsi dei fotoamatori. Nulla di meno preoccupante. Per chi non vuol vedere.
Perché basta poco per scatenare l’occulto che sta dietro lo specchio: una semplice torsione. Nessuna manipolazione, nessun intervento dentro l’immagine.
Solo un giro di novanta gradi, e il volto luciferino dello specchio, anche lo specchio pacifico di un laghetto circondato da arbusti, avvampa. Messo in piedi, in verticale, l’asse di simmetria non rimanda più al mondo dei paesaggi aperti, acquatici, naturali. Non esistono in natura specchi verticali.
E anche gli specchi manufatti, quelli che usiamo ogni giorno nella distrazione, ci si propongono sempre di faccia, frontali: riflettono quel che abbiamo alle spalle, non dividono e non duplicano quel che abbiamo di fronte, come farebbero se li guardassimo di scorcio. Quando così non è, restiamo spaesati. I labirinti di specchi dei luna park sfruttano proprio la nostra incapacità di venire a patti con superfici riflettenti che non includano il nostro riflesso.
In verticale, e di scorcio, lo specchio si maschera, si nega come specchio, si propone invece come doppio disincarnato.
In questi paesaggi dis-orientati vediamo la simmetria, ma perdiamo il riflesso. Allora cervello cerca gestalticamente nuovi principi ordinatori, convincenti spiegazioni di ciò che stiamo percependo. E li trova. La simmetria verticale, nel nostro mondo visuale, è propria solo delle forme viventi. Qualsiasi macchia disposta attorno a un asse verticale tende a organizzarsi nella nostra mente come un profilo di pianta, di animale, un muso, un volto.
L’occhio perlustra, indaga, seleziona, mette a sistema. Quel che trova, naturalmente. Quel che di volti o musi c’è già nell’archivio interiore, nei nostri inconsci album visuali, viene richiamato in servizio per spiegare il mistero. Ricordi di immagini già viste. Gufi. Scimmie. Le fronde degli alberi trasfigurate in ciuffi pelosi, le macchie scure in occhi, orecchie, nasi.
Un Arcimboldi spontaneo si compone nei segreti canali neuronali, si aggruma tra le nostre sinapsi, si manifesta infine come immagine di qualcosa di possibile. Che cosa? In mancanza di ricordi, di immagini verosimili che spieghino il mistero, tocca ai sogni. Alle fantasie, anche agli incubi. La dissoluzione dello specchio genera mostri. Irreali, ma realistici. I pacificati paesaggi lacustri, piegati ad angolo retto, diventano bestiario senza fine.
C’è un tocco di qualcosa che dà vita a queste forme, le rende plausibili. Ed è la loro imperfezione. La simmetria non è assoluta.
È un semplice problema di ottica: il riflesso su uno specchio d’acqua quasi mai restituisce gli oggetti secondo lo stesso angolo prospettico in cui li osserviamo nella visione diretta. Solo da un certo angolo di visuale l’obiettivo fotografico è in grado di registrare le due immagini, quella diretta e quella riflessa, come prospetticamente identiche, ripiegabili una sull’altra. Tutte gli altri punti di vista generano simmetrie imperfette, deformate dalla parallasse.
Somiglianze perturbate. Ma anche i volti, i musi, le forme naturali sono così, solo apparentemente simmetrici: la natura non si ripete mai. Provate a tagliare a metà una vostra fototessera, ricavate da ciascuna metà un doppio specularmente invertito, e ricomponete mettendo assieme due lati destri e due lati sinistri: nessuno dei due sarà il vostro volto. Entrambi appariranno come androidi di voi stessi, copie robotizzate, innaturali. Viceversa, l’asimmetria di minimi scarti dona il marchio della vita.
Nella triangolazione tra realtà, specchio, fotografia siamo al cuore dell’immagine meccanica, al suo fondamento percettivo e alla sua radice culturale assieme.
Non c’è trucco, non c’è inganno, queste immagini sono impronte del reale, non manipolate. Ma la congiura fra inganno speculare, torsione dello sguardo, incertezza spaziale, produce l’irruzione dell’irreale, dell’inconscio, del turbamento.
Un suggerimento: montare una di queste fotografie su un pannello in grado di ruotare molto lentamente. Cerchino poi gli osservatori di trattenere il più possibile nella loro percezione l’immagine “autentica”, tentino di individuare il punto critico (45 gradi? O di più?) oltre il quale l’inclinazione dell’asse di simmetria non riesce più a giustificare la prima organizzazione di senso (stagno alberato) e l’immagine precipita improvvisamente in un’altra (volto fantastico).
Improvvisamente, ma non istantaneamente. Deve pur esserci un momento di sospensione in cui l’immagine è completamente disorganizzata, sempre distintamente visibile, ma assolutamente priva di interpretazione. Quel momento impalpabile è un limbo magico tra due mondi, tra percezione e senso.
Quello è il luogo più puro della fotografia, specchio fasullo, specchio fatato.
Michele Smargiassi
foto di Andrei Sapovalov
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